mercoledì 18 aprile 2012

Letteratura

Ci sono diverse tracce del lemma trainare nella letteratura, in modo particolare in quella italiana.

Grazia Deledda ad esempio, in un passo del romanzo "Canne al vento" (capitolo 17) scrive:
" [...] Ma Efix rimise la testa giù e chiuse gli occhi, non perché offeso dagli scherzi dei suoi padroni ma perché si sentiva tanto lontano da loro, da tutti. Lontano, sempre più lontano, ma con un peso addosso, con un traino che non gli permetteva di andare avanti, di tornare indietro. Era peggio di quando si portava appresso i ciechi. [...]"

Luigi Grande invece, all'interno suo trattato "Diritto all'Ozio" scrive:
" [...] Mi parve di comprendere perché la mia vita mi appariva spesso come un pesante carro da trainare, perché il mio lavoro mi stancasse tanto: m'ero sempre negato e continuavo a negarmi quel riprender fiato che deriva soltanto dal dedicarsi a un'attività che non abbia scopi pratici e materiali, inutile e perciò pura; m'ero sempre vietato e continuavo imperterrito a vietarmi l'ossigeno che solo può darci il ricercare in noi stessi quel tanto di sogni giovanili che, sia pure come ruderi, l'anima nostra serba gelosamente in sé. [...]"

Lo stesso Luigi Grande, in un'altra opera intitolata "Gli Sbagli di Vostro Onore" (parte terza) dice:
"[...] Un carro di tal fatta è sempre un trabiccolo difficile da trainare, anche se ci si mettono gli stuoli di schiavi che costruirono le piramidi. [...]"

Più di recente, un gruppo di scrittori bolognesi, chiamati Wu Ming scrivono il romanzo "Manituana", all'interno del quale possiamo trovare il seguente passo:
"[...]Aprì gli occhi e riprese a muovere le braccia e a scalciare verso la superficie, si sentí trainare da una forza invisibile.[...]"


Grazia Deledda - Canne al vento, Mondadori, 2001

Wu Ming - Manituana, Einaudi, 2007




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